Ciao Orecchiabilinə,
come forse avrete astutamente notato siamo in ritardo di un paio di giorni sull’invio di questo numero che, contravvenendo a ogni regola nel marketing, vi mandiamo addirittura di sabato pomeriggio. Chiara è impegnata in un trasloco Berlino-Marche e, in cambio di avanzi vari, Giacomo è stato arruolato nel prezioso ruolo di traduttore italo-tedesco, chiuditore di cartoni e pulitore di tappeti. Per combattere l’incipiente nostalgia delle nostre serate berlinesi, Chiara si è messa ad ascoltare Katia, un podcast che ti parla per quattro ore dei suoi problemi e se ne va senza chiederti come stai. Giacomo invece si è rifugiato nell’amore verso un internet che non c’è più con le investigazioni a, blando, contenuto tecnologico di Reply All, uno dei podcast che hanno influenzato quasi tutto quello che ascoltate in questi giorni.
Pronti, partenza, play!
Katia, Edoardo Zaggia/Alberto Sacco 🇮🇹
Sono nel bel mezzo di un trasloco internazionale e, nonostante abbia appena finito di riempire lo scatolone numero quattordici, il mio appartamento continua a rigurgitare oggetti che mi pregano di non essere lasciati indietro nelle fredde lande berlinesi. Incredibilmente però, sto riuscendo a vivermi questo impacchettamento di vita in maniera più spensierata del previsto, senza soccombere a quella nostalgia da Dawson Creek che spesso attanaglia noi figli degli anni novanta. Buona parte di questa mia insospetta resilienza è dovuta alle cose che sto ascoltando e guardando in questi giorni, che sono decisamente cambiate da quando intorno a me non vedo più una casa carina e amorevole, ma un ammasso di roba che non so come trasportare dal nord al sud dell’Europa. Da qualche settimana infatti ho messo da parte i contenuti impegnati e le mie ossessioni true crime per lasciar spazio alla leggerezza.
Con leggerezza non intendo qui una semplice disimpegnata frivolezza, ma, parafrasando male il povero Calvino, un planare sopra i problemi della vita e sotto il menefreghismo della procrastinazione. Grazie a questo dolce planare sono approdata nel magico mondo di Rubrichette, un canale YouTube (ci arriviamo) che ha riempito i miei traslochi di risate e angioletti della Thun. Edoardo Zaggia e Alberto Sacco, le menti dietro al progetto, sono partiti da Instagram, per poi passare a YouTube e infine approdare ai podcast, a dimostrazione che quando fai ridere lo fai in qualsiasi formato. La loro opera magna è, appunto, Rubrichette, una serie di video in cui a cadenza settimanale approfondiscono alcuni dei più importanti temi del mondo odierno: i lavori delle suore, le nutrie al forno, i fotoromanzi turchi e borse dalla dubbia manifattura, in un tripudio di acuti adorabili, “esibizioni” col flauto e camicette pazze.
Katia è il loro podcast e prende il nome dall’amica pettegola di vostra mamma, quella che si presenta in casa senza essere invitata e non se ne va più, oppure chiama al telefono occupando la linea per ere zoologiche proprio mentre state aspettando che il vostro grande amore (Pacey? Jane? Jack?) vi chiami. Katia è un’estensione dell’immaginario di Rubrichette in una scintillante versione audio piena di cazzeggio e gioia color fucsia, in cui Zaggia e Sacco parlano a ruota libera, un po’ dei fatti loro, un po’ di curiosità e di cose che accadono a tuttə, come per esempio TRASLOCARE (coincidenze?). Come l’amica della mamma, Katia si palesa un po’ quando vuole, che più o meno coincide con quando Zaggia e Sacco non lavorano ai video per il canale.
Le prime sei puntate di Katia sono quasi un involontario esempio da manuale di come molti podcast indipendenti sono nati: un’idea ben precisa, inserita in un contesto più ampio (quello dell’universo di Rubrichette), raccontata e portata avanti di pari passo con i personaggi che la raccontano, con l’aspetto tecnico del podcast inizialmente in secondo piano e che migliora di puntata in puntata con l’aumentare della confidenza con il mezzo.
Tra parenti problematici, una certa insofferenza (da me condivisa) verso Gianni Rodari e riflessioni sulla legittimità di fischiare agli uomini per strada, Katia va ascoltato perdendosi nelle chiacchiere di Alberto e Edoardo, in un labirinto di parentesi aperte e mai chiuse, proprio come i discorsi che fanno vostra mamma e la sua amica.
🎧 Consigli di ascolto: guardate almeno un video di Rubrichette prima di partire con il podcast, così giusto per avere un’idea dello splendido immaginario che circonda il podcast.
🧁 Bonus: Edoardo e Alberto sono parecchio attivi e seguiti su Instagram. Amateli e molestateli con garbo perché si accorgano di questa recensione e ci aiutano a diventare dei ricchi possidenti terrieri.
Reply All, Gimlet Media 🇺🇸
Benvenuti a un nuovo episodio di “Giacomo vi parla di nerdismi nostalgici, del suo (ennesimo) podcast preferito e di ambienti di lavoro tossici”. Mettetevi comodi che qui si va per le lunghe. Iniziamo.
Faccio parte di quella generazione che è cresciuta insieme ai primi rumorosi vagiti al gusto 56k dell’internet commerciale, in anni in cui si surfava la rete affidandosi al passaparola e a motori di ricerca dai risultati più che discutibili (vero Virgilio?). L’internet dei tempi era una fantastica accozzaglia di weirdume selvatico, dove non si andava per cercare risposte e fare cose, ma piuttosto per ammirare divertiti tutto quel ribollire di wordart, presunti viaggiatori del tempo e financo metaversi ante litteram partoriti dalle sinapsi di Max Pezzali (davvero!). Internet era semplicemente un bel posto in cui passeggiare come dei veri cyberflâneur, riempiendosi gli occhi delle infinite possibilità che il futuro prossimo venturo ci avrebbe riservato (all’incirca).
Poi sono arrivati Google e i soldi e la rete è diventata un posto efficiente e ordinato, dove ci avventuriamo con degli scopi ben precisi e in cui quattro o cinque compagnie monopolizzano l’attenzione di noi influenzabili utenti a suon di algoritmi. Tutto è bello, curato e facile da trovare. Quel che manca però, è quella sensazione di avventura e scoperta che le esplorazioni nella giungla dell’internet di fine anni novanta si portavano dietro e che, agli occhi del me adolescente, lo rendevano un posto speciale.
A sopire le mie nostalgie di presunto Indiana Jones della tecnologia, ci pensa da ormai otto anni Reply All, uno dei primi podcast che ho ascoltato e uno di quelli che ancora oggi consiglio con malcelato entusiasmo quando cerco di fare un po’ di sana evangelizzazione audio. Come avrete capito, Reply All è un podcast che, almeno nominalmente, esplora internet e i suoi più reconditi meandri. Nel farlo però si concentra su storie personali che mettano in luce come le nostre vite sono sempre più spesso influenzate da quello che succede online, rendendone l’ascolto godibilissimo anche per chi non ha assolutamente idea di quello di cui stavo parlando nelle prime righe di questa recensione.
Veniamo quindi portati a spasso tra truffaldini call-center in India, andiamo a caccia di canzoni scomparse nei crepacci dell’etere e cerchiamo di capire perché quel numero di telefono con un prefisso strano continui a chiamarci. Il tipico episodio parte da un bizzarro, e spesso banalissimo, avvenimento tecnologico in cui qualcuno si è imbattuto, per poi lanciarsi poi in spericolate investigazioni del world wide web e dintorni alla ricerca di spiegazioni. Mutuando la forma dei podcast true crime e di altre produzioni Gimlet come Heavyweight e Mistery Show, seguiamo tutto il processo investigativo da vicino, divertendoci a sentire i due host brancolare nel buio in cerca di risposte senza mai prendersi troppo sul serio.
Siamo quasi all’episodio numero duecento e Reply All, nonostante qualche periodo di stanca e qualche “problemone” (vedi bonus qui sotto), resta uno dei migliori podcast in circolazione. La produzione è stellare e le storie raccontate riescono sempre a divertire e intrattenere, aprendo spesso interessanti squarci di riflessione sul ruolo della tecnologia nelle nostre vite e scoperchiando il marcescente humus che si nasconde sotto l’internet delle corporation. Fatevi un regalo e mettetevi Reply All nelle orecchie. Non ve ne pentirete.
🎧 Consigli di ascolto: mi tocca farvi un piccolo compendio dei miei episodi preferiti. Cerco di limitarmi, promesso.
Long Distance - la caccia ai truffatori da call center prende una piega piuttosto personale quando uno degli host di Reply All fa amicizia con chi cercava di spillargli dei soldi
The Case of the Missing Hit - in cui si va alla ricerca di una canzone che, a quanto pare, esiste solo nella testa di una persona. Oppure no?
The Case of the Phantom Caller - una donna in New Jersey riceve telefonate a da numeri sconosciuti e, ad ogni risposta, si trova ad ascoltare vite di altri dal buco della serratura.
Zardulu - i ratti di New York rubano la pizza?
Country of Liars - Reply All negli anni ha spesso parlato di QAnon, a partire da quello splendore del PizzaGate. In questo episodio i nostri eroi trovano prove abbastanza conclusive su chi stia dietro questo delirio di complotto (questo è uno dei pochi episodi in cui un po’ di nerdismo è richiesto per capirci qualcosa)
Boy in Photo - l’ossessione per una message board degli anni novanta nel capire cosa fosse successo al ragazzino di una foto.
🧁 Bonus: Reply All è uno dei podcast più ascoltati al mondo e uno dei motivi dietro il vertiginoso successo di Gimlet, la sua casa di produzione, passata in soli cinque anni da piccola e tenera startup alla vendita a Spotify per duecento milioni di dollari. Con la crescita di fatturato e forza lavoro però, sono arrivati anche i problemi, esplosi recentemente proprio a causa di una serie di episodi di Reply All. La vicenda è lunga, parecchio complicata e non del tutto trasparente, ma mi par doveroso parlarne (qui un lungo resoconto in inglese). Siamo nell’inverno 2021 e Reply All è nel bel mezzo di una serie di episodi investigativi su Bon Appetit, un un magazine e sito di cibo e affini, che viene raccontato come un un posto di lavoro particolarmente tossico e affetto da razzismo sistemico. All’uscita del secondo episodio alcuni ex dipendenti di Gimlet iniziamo a far rumore, facendo notare che, nella sua rapidissima espansione, la podcasting company si è impelegata esattamente negli stessi problemi di Bon Appetit, diventando un ambiente di lavoro poco piacevole, in particolar modo per le minoranze. Gli episodi in questione di Reply All, il cui team è ritenuto co-reponsabile della plumbea atmosfera dentro Gimlet, vengono giustamente percepiti come una orribile mancanza di tatto e scoppia un merdone di proporzioni megagalattiche di cui si parlerà per mesi e mesi. Succede di tutto. Ci sono accuse, risposte evasive, scuse sentite (e meno), marce indietro e cambi di leadership. Reply All si mette in pausa per mesi, uno degli host e una delle produttrici più in vista lasciano si dimettono e tutta l’industria del podcasting è costretta a riflettere su come l’industria è strutturata. Non tutto il male vien per nuocere. Oggi le cose dentro Gimlet e dentro Reply All paiono cambiate e questa brutta storia resta un esempio per il mondo dell’audio e per le startup di come non gestire le cose, con la speranza che serva a rendere migliori le esperienze lavorative di chi affaccia al mondo del lavoro negli anni venti.
Bene, anche per oggi è tutto. Ora, srotolate i fili delle cuffiette e iniziate ad ascoltare! Sentiamoci su Instagram e se vi va, condividete questa newsletter con qualcuno che pensate possa apprezzarla.
Chiara & Giacomo